Questa intervista è tratta dal numero 39 di Vanity Fair in edicola fino a martedì 1 ottobre.
Sono gocce di memoria queste lacrime nuove. «Mio padre mi vide femmina la prima volta che era già a letto malato: erano gli ultimi giorni della sua vita. Mi guardò sulla porta e, nella penombra della stanza, s’illuminò di una dolcezza già dell’altra parte, extra terrena, non di Pomigliano d’Arco né di questo mondo. Con un filo di voce disse: “Rosaria mia, Dio come sei bella”. Mi aveva scambiata per mia sorella».Solo oggi, però, Vittoria − l’abbiamo conosciuta a Napoli nel 2014, che aveva ancora i lividi, i segni sulla pelle dell’intervento appena subito in Spagna − è la donna che Giuseppe aveva sempre desiderato diventare. «Quando ritorni nel corpo giusto, in cui sin da piccola t’immaginavi, il tempo si contrae: sei bambina a 30 anni e matura a 35.In mezzo hai avuto le tue insicurezze, bisogno di abiti strizzati, spacchi e scolli vertiginosi, di spogliarti, accavallare le gambe, battere le ciglia. In ogni caso, il dubbio restava: si stavano voltando perché piacevi o perché si chiedevano “Ma che attrezzo è”?».
In Un posto al sole (ovvero nell’appuntamento più tradizionale del pre-serale di Raitre, la soap che da decenni appassiona l’Italia di adolescenti e nonne da nord a sud), Vittoria è un padre a cui dell’uomo di prima sono rimasti solo gli occhi e, ormai donna, deve spiegare alle figlie il suo cambio di genere. «Mi hanno voluta meno bionda, con meno seno, piume, struzzi, trucco, meno tutto. Avrei dovuto confondermi, “normalizzarmi”, essere una qualunque con un problema qualunque da risolvere: un’occasione anche per me. Via l’extension, via ogni maschera».
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La platea ha applaudito («Sul mio personaggio, che insegna ad avere coraggio oltre ogni spavento e dolore, c’è stato il 98 per cento dei consensi») ma, lo sappiamo, può essere feroce, cattiva («C’è ancora chi, ignorante, pensa che fare una transizione significhi essere una simil prostituta che cammina nuda con il boa intorno al collo alle 11 del mattino»).
Le parole, quelle che non vuole ascoltare più: «Transgender, transessuale, ex uomo: non sono più tutte queste cose da almeno cinque anni». Definizione esatta: «Una donna nata in un corpo sbagliato, che ha vissuto due volte e che, davvero, la prima non la augurerebbe a nessuno». Stato civile: «Fidanzata con Donato da due anni. Fa l’imprenditore. E qui sono all’antica: vorrei che mi chiedesse di sposarlo, e tirar su con lui una casa, e una bambina. Femmina. Quella che non sono stata. Giocherei con lei, le stirerei i capelli». Tamponare un vuoto avuto da piccola è motivo onesto per avere un figlio, per immaginarsi madre oltre che donna? «La maternità è un desiderio che sento preciso. Forse anche per quello mi sono tagliata il pisello». Come funzionerà? «Prima di iniziare le cure ormonali, che di lì a poco mi avrebbero bloccato la produzione di testosterone e reso sterile, su consiglio del professor Iván Mañero, ho congelato il seme. Questo mi consente oggi di poter progettare una surrogata con una corrispondenza genetica. All’estero. Anche se mi piacerebbe poterlo fare qui».
Sarebbe un «primo caso». Nessuna paura dell’ennesimo giudizio? «Per me una persona perbene che vuole un bambino ha diritto di arrivarci in tutti i modi difficili e immaginabili. L’istinto solo tu sai cos’è, e va appagato. Nessuno fuori ti può dire: è giusto, è sbagliato». Non poterlo fare come la maggior parte delle persone: anche questa, al di là dell’etica, è la procreazione medicalmente assistita. «Per raggiungere un’isola felice, spesso intorno c’è la tempesta e ti viene richiesto di buttarti e nuotare. Controcorrente, bevendo acqua dalle onde in faccia, rischiando di annegarci dentro. Ma ci resta la fantasia. In una clinica, seduta in una sala d’aspetto, si può immaginare che lo si sta facendo in una notte d’amore. Fuori piove, ho acceso le candele, e va la Callas». Sarà madre, ma per l’esame del Dna, padre: «Sarò genitore, punto».
Luoghi comuni: «Se sei bella, sei scema. Se fai l’attrice, sei una zoccola. Se fai un cambio di genere, sei Satana. E io li ho tutti e tre». Che cosa dire ai genitori: «A mio padre, operaio, interessava che fossi felice. Ho sempre desiderato ballare con lui quando lo faceva con mia sorella a Natale, ai matrimoni, alle feste comandate, ma non l’ho mai detto a nessuno, e l’unico mio rimpianto è di “essermi partorita tardi” per poterlo fare. Mia madre, invece, mi ritirò da danza quando avevo sei anni perché la considerava “roba da femminucce”, e reagì male: fu un trauma perché sapeva benissimo che per far nascere sua figlia doveva uccidere suo figlio, e loro due avevano un rapporto speciale, non voleva. Usò espressioni forti e poi, solo molto dopo, mi chiese perdono. Per gli errori, per non essere riuscita a starmi accanto quando era difficile, quando mi divorava la paura: “Sotto i ferri ci posso morire”. E quindi ai genitori dico: “Non siate egoisti. Ci si può vergognare di uccidere e rubare, non di andare verso la verità. Hanno tolto la disforia di genere dalle malattie, ma io credo lo sia, e che vada curata. Anche con la cultura scolastica, politica, sociale. Senza più parlarne di nascosto, sottovoce. Io dentro Giuseppe mi sentivo proprio menomata. Oggi penso a lui come a un vecchio amico, un fratello che sta chissà dove. Mi fa una gran tenerezza, ma più tristezza. Durante un trasloco, ho buttato tutte le sue cose. Non ho più neanche una sua foto».