Vittoria Schisano: «Mi offrivano ruoli pieni di pregiudizi. Con “La vita che volevi” sono una protagonista risoluta» (2024)

Vittoria Schisano: «Mi offrivano ruoli pieni di pregiudizi. Con “La vita che volevi” sono una protagonista risoluta» (1)

Si chiama Gloria la prima protagonista transgender della serialità italiana. Vive a Lecce, anche se è originaria di Salerno, ed è il personaggio principale della nuova serie Netflix La vita che volevi di Ivan Cotroneo e Monica Rametta. A dare voce alla figura di Gloria ci ha pensato Vittoria Schisano. Un ruolo che le ha permesso non solo di tornare con orgoglio sulle scene, dopo dieci anni di proposte per personaggi Amab (termine con cui si indica una persona a cui è stato assegnato il genere maschile alla nascita) privi di dignità - «per anni le donne transgender sono state rappresentate marginalmente, come sex workers», ricorda Cotroneo -, ma l’ha aiutata anche a riflettere su sé stessa e a «maturare»: «Gloria si concede delle cose che io non mi concedevo, come l’essere imperfetta, la possibilità di sbagliare, perfino di non piacere», racconta Schisano all’Università Iulm di Milano, a margine della presentazione della serie, disponibile da fine maggio sulla piattaforma.

Non si dava la possibilità di essere imperfetta?
«Gloria si concede di non piacere, mentre io, forse vittima a mia volta della cultura misogina, andavo in un’altra direzione. Nascondevo le mie insicurezze dietro alla piega perfetta. Oggi invece, trovo meraviglioso essere qui con i capelli legati, struccata, e dire questa sono io. Siamo così abituati a guardarci attraverso i filtri che quasi non ci riconosciamo per la nostra verità, e allora si corre il rischio di credere che quel chilo di troppo, quel capello bianco, il brufolo, o la cicatrice, siano qualcosa che non possiamo permetterci di avere, perché quelle “giuste” non li hanno. Il mio personaggio aiuta a capire che la bellezza è imperfezione».

Imperfezione, diversità, sono concetti che forse dovremmo ricordare più agli adulti che ai ragazzi, non crede?
«Sì, concordo. Io sono zia, ho tre nipoti, e nessuno mi ha mai fatto una domanda sul mio percorso personale come donna Amab. Così come non me l’hanno mai fatta i ragazzi, gli adolescenti o i bambini che ho incontrato nel corso della mia vita. La verità è che a loro non interessa nulla. Guardano solo se sei una brava zia, una cattiva zia, se sei presente, se gli dai l’affetto che cercano».

Nella serie assistiamo alle due stagioni della vita di Gloria. Viviamo gli attimi prima della transizione, quando viveva con Marina (Pina Turco) un amore libero ma al tempo stesso impossibile, il coming out con i genitori a Salerno, la partenza per la clinica a Barcellona, e poi - a distanza di anni - la nuova vita di Gloria a Lecce, affermata proprietaria di una piccola agenzia turistica. Dalla sua transizione sono passati ormai dieci anni, che effetto le ha fatto rivivere quegli attimi?
«Ho vissuto quelle scene come spettatrice, anche perché a Gloria accade qualcosa di simile, ma completamente diverso da quello che ho vissuto io. L’unico punto, su cui faccio ancora fatica a parlare, è la scena in cui Gloria subisce una violenza da parte di un poliziotto, che, dopo averla fermata mentre stava tornando a casa, la costringe a un rapporto orale».

Perché fatica a parlarne?
«Si tratta di un’esperienza analoga a ciò che ho vissuto io. Perché la violenza esiste, a prescindere dal fatto che tu sia una donna cisgender o una donna Amab. Purtroppo ci sono alcuni uomini che non sono stati educati, o che forse si sono educati sui social o guardando film porno - ecco perché l’educazione all’affettività e al rispetto andrebbe fatta nelle scuole - che credono che più la loro compagna urla più è felice, che se vedono una donna con la minigonna credono sia roba loro di diritto. Purtroppo quando mi è successo non ho parlato perché, così come succede a tante altre donne, mi sono sentita in colpa, ho creduto di essere stata io a provocarlo, e ho pensato che nessuno mi avrebbe creduta. E quindi sono stata zitta».

Gloria ha un rapporto molto forte con la fede. Lei in cosa ha fede?
«Nasco in una famiglia cattolica, quindi la mia educazione è quella. Sono credente, ma ho un rapporto abbastanza particolare con la religione. Non vado mai a messa e non faccio i sacramenti, non mi confesso perché non vorrei mai sedere a un tavolo dove non sono stata invitata. Al tempo stesso, mi sento in pace con me stessa e con quello che vogliamo chiamare Dio, perché sento che sto facendo la cosa giusta, che sono una persona onesta, che si mostra per la sua verità. Quando ero piccola, mia madre mi diceva che Dio perdona tutti, e mi piace pensare a un tipo di fede, a un tipo di religione, che sia accogliente, che non ci educhi al senso di colpa».

Come si sono comportate le persone che ha incontrato lungo il suo cammino lavorativo in questi dieci anni?
«È stato complicato. Per diversi anni non ho accettato ruoli perché in precedenza avevo portato in scena personaggi che oggi mi mettono in profondo imbarazzo, perché la narrazione che veniva fatta non era paritaria a quella che io stavo facendo e che ogni giorno faccio della mia vita. I messaggi che quei film e quelle serie veicolavano erano pieni di pregiudizi, e per anni si è costruita una cultura misogina e ignorante che ha fatto danni. Quando ho fatto coming out con mia madre ho avuto davanti una donna che provava quel sentimento, e non per il fatto di avere una figlia che la rendeva orgogliosa e felice, ma perché provava imbarazzo nel raccontarlo ai vicini, perché dire loro che sua figlia era una donna non biologica significava ricordare quei personaggi rappresentati da una cinematografia poco attenta. Ecco perché La vita che volevi è importante: per la prima volta una donna Amab non solo diventa protagonista, ma è risoluta, felice, non convenzionale».

Ivan Cotroneo ha raccontato che dopo la diffusione della serie su Netflix, le scrivono da tutto il mondo. È la conferma che è riuscita a veicolare un messaggio?
«Essere distribuita in 190 Paesi mi ha fatto capire che per quanto possiamo sembrare lontani, in realtà siamo vicinissimi e abbiamo tutti la stessa voglia di essere rappresentati. Mi ha scritto una nonna dall’Argentina che ha vissuto per anni una relazione violenta, per dirmi che guardare quelle scene è stata un’iniezione di coraggio che le ha permesso di dire: “Basta, sono stata zitta fino a ieri, anche se ho 68 anni non vuol dire che debba continuare a esserlo”. E lì ti rendi conto del potere che hai».

È la vita che voleva?
«Sì, e questo lo puoi dire solo quando ti accetti, quando accogli anche l'imperfezione di una giornata. Da piccoli pensavamo che essere felici significasse solo avere un bel corpo, una bella casa, la macchina giusta, come se la felicità fosse legata al singolo episodio, rendendola così effimera. Quando invece capisci che la felicità è uno status mentale, allora è in quel momento che lo sei davvero tutti i giorni. Sei felice semplicemente perché ti guardi allo specchio e ti riconosci».

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